Visto che siamo in piene vacanze natalizie, se permettete, mi faccio un regalo e parlo di cinema. Anch’io ho approfittato del momento propizio per farmi una scorpacciata di film. Ho cominciato con Il ponte delle spie celebrato all’unanimità dalla critica, in odore di capolavoro assoluto, come sempre accade a Spielberg. Anche questa volta non mancano i motivi per apprezzarne il lavoro: una storia sorprendente, appassionante, che dura due ore e mezza senza annoiare mai, con un finale, affidato a didascalie, che smentisce le previsioni e con due interpretazioni formidabili (Rylance ancor più di Hanks). Ma…, qualche ‘ma’ si può dire? O si diventa subito disfattisti? Almeno dovrebbe farlo la critica, il cui compito è proprio quello di mettere i puntini sulle i.
Per esempio sarebbe il caso di sottolineare come il film sia diviso nettamente in due parti. La prima, quella che si svolge in America, è davvero perfetta e, se ancora volta non manca la solita America in cui trionfa la giustizia vera e giusta, quella sostanziale e non quella formale, in generale il quadro è ben sfumato. Anche in America non mancano agenti cinici, poliziotti imbecilli, un clima isterico condizionato dai media e dall’indottrinamento scolastico. Ma quando la scena si sposta a Berlino est comincia una serie di immagini tanto improbabili quanto già viste. Nella città ancora distrutta e alla fame, si muovono i soliti fantocci comunisti, qualche ladruncolo, poliziotti feroci, mentre un ambiguo avvocato intrallazzatore scorrazza sulle strade innevate in mezzo alle macerie sulla sua spider come fosse Cary Grant sulla Costa azzurra di Caccia al ladro.
Forse mettere i puntini su queste i, anche all’interno di un giudizio complessivamente positivo, non sarebbe un esercizio inutile per la critica. A meno che non si consideri tutto questo “tenebroso orrore della macchina sovietica” come il campo su cui “la differenza radicale tra i due sistemi appare in tutta la sua ampiezza” e dove “il Bene e il Male ritrovano il loro vero confine”. Nientepopodimeno! Così dice l’inserto domenicale di Il Sole 24 ore. Ma, a parte il fatto che quando vedo il bene e il male scritti con la maiuscola mi viene l’orticaria, a me pare che il cinema che racconta il comunismo in queste forme stereotipate non sia diverso da quello che riempie i film ambientati in Italia di pizze e mandolini. Insomma, il comunismo è morto, ma il luogocomunismo se la passa benissimo.
Per mia fortuna, nella sala accanto davano il film di Woody Allen, snobbato da molta critica, che invece ho trovato davvero un capolavoro, dove tra una citazione di Kant e una di Dostoevskij si insinua che il confine tra il bene e il male sia una cosa complicata da definire. E non passa solo sul muro di Berlino.
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