
Rubrica di psicologia e affini, a cura del dr. Mauro Sorrentini, psicoterapeuta, specializzato in psicoterapia individuale e di gruppo
L’attacco al Charlie Hebdo, ed immediata la risposta dei mass media; ricordiamo bene la condivisione dello slogan “Je suis Charlie”. Ad Orlando un nuovo attentato ed un nuovo “Je suis….”.. e nuove modifiche ai nostri profili sul web. Certo un risultato positivo della socializzazione, ma che scarica solo una parte di quelle emozioni che attanagliano e offuscano la mente… paura, terrore, incertezza, generando una esigenza di sentirsi uniti e compatti verso un nuovo dolore.
La politica del terrore si basa proprio su questo: provocare paura e impedire che le persone possano riflettere su quello che stanno vivendo e su come affrontarlo. Così se da una parte è normale avere paura, dall’altra è altrettanto normale cercare il modo di proteggersi, ma accade più spesso di scappare da quella paura. Vengono allora utilizzati tutti i canali di comunicazione per ricordare a se stessi di non essere soli, nel tentativo di sfuggire al senso di quotidiana impotenza.
L’atto terroristico, attraverso il ricorso ad azioni ad elevato contenuto emozionale alimenta il senso di impotenza e di insicurezza. Ci sentiamo vulnerabili, minacciati ed insicuri percepiamo la nostra fragilità. Le immagini di morte colpiscono l’emotività dello spettatore tanto più forte, quanto maggiore è l’immedesimazione, e più reale l’idea del “poteva capitare anche a me”. Siamo vittime emotive dell’impatto psicologico del terrore, il dolore degli altri diventa la nostra angoscia.
I terroristi si muovono da una posizione di dissenso ed odio verso l’altro, sfruttano la psicologia della comunicazione per produrre effetti devastanti: paura, angoscia, inibizione sociale, incremento del disagio esistenziale e sociale. Ottengono effetti di tale portata utilizzando i mezzi di comunicazione per generare terrore, un modo di comunicare strumentale, dove gli effetti descritti divengono più dannosi dell’azione di per sè.
I media utilizzano la notizia trasformandola in cassa di risonanza ed attraverso di loro ed il terrorismo assume una portata non reale, ma amplificata. Una battaglia di equilibrio tra diritto/dovere dell’informazione e la possibilità dei danni di una sua manipolazione.
In fondo sappiamo come affrontare queste ansie, accettare il dolore e continuare la nostra vita evitando la fuga senza farci togliere libertà, autonomia e fiducia. Occorre lucidità per non cedere all’angoscia. Ripetiamocelo, l’ obiettivo del terrorismo è indurre angoscia collettiva per diminuire la nostra libertà.
Con il terrorismo vengono prodotte nuove paure, vengono amplificate quelle preesistenti, viene alimentata l’intolleranza verso gli estranei ed i diversi. È un crollo di certezze e di sicurezze che incrina l’equilibrio psicologico e produce un’enorme insicurezza collettiva. La paura psicologicamente è un sentimento che ci difende dal pericolo, permette l’attivarsi di meccanismi di difesa e di problem solving. Quando dalla paura, a causa di una mancata elaborazione razionale, si passa al terrore e si rimane paralizzati e sottomessi.
Una spirale lenta, che passa attraverso gli occhi dei nostri figli, la paura di perdere chi ci è caro, oltre a noi stessi. Rischiamo inoltre assuefazione e desensibilizzazione davanti alla violenza spegnendo la reattività emotiva davanti ad immagini brutali che possono portare a privilegiare le sensazioni di paura ed angoscia rispetto alla convinzione di vivere la nostra libertà, difenderla e testimoniarla…ed allora ben vengano i “je suis…” , ma crediamoci quando diremo i prossimi slogan.. facciamolo senza “l’ipocrisia di terrore”; stringiamo le nostre mani e combattiamo il senso di impotenza, che rischia di contagiarci in modo virale.
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