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Rubriche – Querelle sulla “Ciociaria”, Longo risponde a Santulli

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In relazione all’articolo di diversi mesi fa a dire il vero( http://ilgazzettinociociaro.it/2016/10/04/rubriche-ciociaria-terra-inesistentesiamo-sicuri/ ) , del Prof. Santulli che ribatteva alle tesi di Santarelli sull’Alta Terra di Lavoro, arriva la controreplica di Antonio Longo.

Proviamo a smontare gli argomenti addotti nei suoi articoli da Michele Santulli, convintissimo assertore di una Grande Ciociaria che esiste solo nei suoi auspici.

Se è vero infatti che i confini della Ciociaria, intesa come regione storica, vanno al di là della provincia di Frosinone, in quanto appunto ricomprendono anche territori che si trovano nella parte meridionale della provincia di Roma e nella parte settentrionale della provincia di Latina, nondimeno è vero anche che nei confini della provincia di Frosinone (e a maggior ragione in quella di Latina) rientrano territori che NON fanno parte della Ciociaria. Mi riferisco, naturalmente, a tutti quei comuni che precedentemente all’istituzione nel 1927 della provincia di Frosinone facevano parte della provincia di Terra di Lavoro, il cui capoluogo era Caserta, e che prima del 1861 si trovavano all’interno dei confini del Regno delle Due Sicilie, mentre, come è noto, la parte settentrionale delle attuali provincie di Frosinone e Latina (che, con la parte più meridionale della provincia di Roma, costituiscono la Ciociaria vera e propria) si trovava all’interno dello Stato pontificio, con la denominazione amministrativa di Campagna e Marittima prima, e da ultimo di delegazione di Frosinone.

Osservo che a rimarcare la differenza tra la Ciociaria e i suddetti centri, che costituiscono appunto la parte settentrionale della Terra di Lavoro, sta il dato linguistico, che ancora più di quello storico e geopolitico risulta fondamentale per dirimere la questione dell’estensione territoriale della Ciociaria.

In Ciociaria si parla ciociaro (più correttamente definibile come campanino, da Campagna), che è un dialetto mediano, cioè dell’Italia centrale, al pari del viterbese, dell’umbro e del marchigiano, mentre in tutti i comuni “borbonici” del Lazio meridionale si parlano idiomi campani o campano-abruzzesi, ovvero dialetti meridionali, pur, in alcuni specifici casi, con qualche tratto fonetico e lessicale in comune con l’area linguistica mediana della Ciociaria, come del resto è del tutto fisiologico che accada nelle zone di confine. Ma, è bene precisarlo a scanso di equivoci, si tratta di affinità circoscritte che non valgono certo a cancellare e nemmeno ad attenuare le differenza linguistiche fondamentali, se non nella fascia di interscambio linguistico, che si estende per una decina di chilometri dal vecchio confine all’interno di quello che fu lo stato pontificio.

Mi chiedo dunque, ma soprattutto sarebbe da chiederlo al Santulli, come un territorio si possa considerare parte di una regione storica, quando con quella regione non condivide né la storia né, se non marginalmente, la lingua. A definire, sia pure approssimativamente, una regione storica, o meglio storico-culturale, sono appunto circostanze storiche e caratteristiche culturali, lingua in primis. Ora, in assenza di quei tratti, storici e culturali, non è possibile sostenere che siamo ancora entro i confini di quella determinata regione storica. E’ una questione di logica pura e semplice, che articola in modo lineare – e inconfutabile – dati storiografici e linguistici alla portata di chiunque.

Per tornare all’incongrua estensione territoriale della Ciociaria del Santulli, men che meno Gaeta e Formia, città “campane” con piena evidenza dell’occhio e dell’orecchio in misura, se possibile, persino maggiore del Cassinate, possono essere considerate parte della Ciociaria. I confini meridionali della Ciociaria, per quanto sfumati, come è proprio di una regione che non ha un riconoscimento amministrativo formale, in ogni caso ricalcano sostanzialmente quelli plurisecolari tra Stato pontificio e Regno delle Due Sicilie.

Tutta l’area che si stende tra Sperlonga e Sora, attraverso Fondi, Itri, Gaeta, Formia, Cassino, Aquino, Atina, Arpino, ha un nome: Alta Terra di Lavoro, dovuto a Costantino Jadecola, che l’ha coniato e al compianto Eugenio Maria Beranger, che l’ha diffuso e reso di uso comune.

Santulli in un altro suo articolo sostiene che “la Terra di Lavoro ha semplicemente separato politicamente parte di quella regione che i Romani chiamavano Latium adiectum”. Santulli evidentemente non deve aver mai sentito parlare di discontinuità storica. Dai remotissimi tempi del “Latium adiectum” sono successe molte cose, dai decisivi effetti territoriali, economici, sociali e culturali. Quella separazione, che ha dato luogo ad altre fisionomie storiche e culturali, data da ben quindici secoli!, nei quali dell’antico retaggio dei popoli italici, peraltro molto meno omogeneo di come vorrebbe il Santulli, è rimasto, in termini di influenza diretta e tangibile, ben poco, come anche il dato linguistico ampiamente dimostra. Ma a chiarire meglio ciò che intendo dire con il fatto che la discontinuità storica è decisiva nella valutazione della faccenda vorrei proporre l’esempio degli Etruschi, che spero risulti chiarificatore. L’Alto Lazio e la Toscana meridionale hanno in comune il sontuoso e peculiarissimo retaggio etrusco. Nondimeno, per i tanti secoli di storia separata, che naturalmente hanno introdotto una manifesta e prolungata discontinuità rispetto al tempo degli Etruschi, manco per niente un abitante del Grossetano o del Senese riterrà che la Toscana meridionale e l’Alto Lazio costituiscano insieme una realtà sufficientemente omogenea, o, in altri termini, riterrà che il retaggio etrusco, pur fieramente rivendicato in entrambe le regioni, costituisca, per usare la terminologia del sostenitore della “grande Ciociaria” Michele Santulli, un fattore qualificante e probante nella connotazione e individuazione di un certo territorio. Se non si sentono, in definitiva, parte della stessa realtà territoriale un abitante di Capalbio (GR) e uno di Montalto di Castro (VT), perché in effetti, malgrado la stretta prossimità geografica e un antico affascinante passato in comune, non lo sono, non si vede proprio perché invece dovrebbero sentirsi affini in senso democulturale uno di Anagni e uno di Cassino, che in comune possono avere solo un antico, troppo antico passato, soprattutto passato.

Peraltro, la vicenda storica e culturale dell’Alta Terra di Lavoro è strettamente legata a quella del resto del Mezzogiorno. Tanto per fare degli esempi, Montecassino e Gaeta hanno avuto un’importanza storica, culturale, economica, politica, persino simbolica, di prim’ordine nell’ambito del Regno di Sicilia, poi Regno di Napoli, poi Regno delle Due Sicilie. Montecassino in particolare ha avuto un’influenza enorme su tutta la Terra di Lavoro e anche oltre verso Sud. Strettissimi sono stati i legami culturali tra Montecassino e Capua, che erano i due centri culturali della Terra di Lavoro. Molto stretti anche i rapporti tra Montecassino e il Salernitano. L’abate di Montecassino vantava il rango di primo barone del Regno (primus baro Regni). Gaeta, a sua volta ha un’architettura e un’urbanistica tipicamente meridionali. Note poi sono le vicende dell’assedio di Gaeta, per cui la cittadella del Golfo è divenuta emblema dei Borboni. Per non parlare del brigantaggio post-unitario, il quale, sobillato anche dal Borbone detronizzato, ha avuto in Alta Terra di Lavoro le stesse caratteristiche sociali e ideologiche che nel resto del Mezzogiorno. Insomma, per storia, tradizione, lingua e cultura, Cassino e Gaeta sono città “campane”. Ovviamente sono campane in un modo e in un senso diversi da Sorrento o Aversa. Ma questo, ai fini del nostro discorso, non significa niente. Anche di Trento possiamo dire che ha molte cose in comune con Innsbruck, apparentemente di più di quante ne abbia, che so, con Lecce, da cui oltretutto dista moltissimo. Eppure nessuno dubita che Trento sia una città italiana al pari di Lecce o di Siena o di Viterbo. Certo, Trento italiana lo è in un modo diverso da Lecce o da Siena o da Viterbo. Così come Torino lo è da Napoli, Venezia da Palermo. Ma certamente Trento è italiana, ed è del tutto distinta da Innsbruck, cui pure la legano la facile raggiungibilità, le tradizioni gastronomiche, vestiario tradizionale, ecc. Ugualmente, un conto è la Terra di Lavoro a Cassino o a Gaeta, un altro conto a Capua, o un altro ancora a Nola o Aversa. Non a caso infatti, per Gaeta, Cassino e tutto il Lazio borbonico, si usa di preferenza il toponimo Alta Terra di Lavoro, che ha la duplice funzione di indicare che intanto siamo in Terra di Lavoro e non altrove, per esempio non in Ciociaria o nell’Agro Pontino, e poi che tale territorio, nell’ambito della regione storico-culturale nonché ex amministrativa della Terra di Lavoro, può comunque vantare una sua specificità, un suo tratto distintivo.

Il Santulli a questo punto, pensando di tirar fuori l’asso dalla manica, mi risponderebbe che Ciociaria non è un concetto né geografico né amministrativo, bensì, come egli pretende, folklorico. Egli infatti scrive che “Ciociaria dunque veniva definito, scientificamente già dal 1850-60 dal Gregorovius, il territorio dove si indossava il costume ciociaro e si calzava un certo tipo di calzatura. E che i ciociari fossero alti o bassi, bruni o biondi, che parlassero italiano o turco, mangiassero polenta o maccheroni, fossero papalini o borbonici, non interessava minimamente ai fini di detta configurazione solo folklorica”.

Ora, a parte il fatto che il concetto di regione folklorica mi suona nuovo e decisamente bizzarro, osservo solo che le ciocie, da cui indubbiamente la Ciociaria trae il nome, sono tuttavia attestate in un’area ben più ampia di quella del Lazio Meridionale (Abruzzo, Molise, Basilicata, Calabria), per cui non basta certo la mera presenza delle ciocie a giustificare l’estensione del termine Ciociaria. Insomma, tra ciocie e Ciociaria, non c’è corrispondenza biunivoca.

Ma, al di là di ciò, è comunque difficile immaginare che calzari (coturnali o acciabattati che siano), “cannate” o “mantesini”, possano costituire un fattore di riconoscimento identitario collettivo, che trascenda addirittura dati storici e linguistici, con buona pace del Santulli, che sostiene invece che “l’abito è uno degli elementi più qualificanti e probanti nella connotazione e individuazione di un certo territorio”. Tanto per fare un esempio, anche nell’arco alpino le popolazioni di lingua tedesca e quelle di lingua italiana hanno molto in comune sul piano degli usi e costumi, dalla gastronomia all’abbigliamento. Ma, naturalmente, tali popolazioni, distribuite su territori diversi e contigui, sentono e avvertono le loro radici in riferimento alla cultura profonda che vivono, in primis alla lingua e alla storia legata a quella lingua. Così come, per riproporre l’esempio già citato in precedenza, l’Alto Lazio e la Toscana meridionale hanno in comune, oltre al meraviglioso passato etrusco, molti usi e costumi, per esempio l’allevamento del bovino maremmano con le tipiche attività dei butteri, o l’improvvisazione poetica in ottava rima, per tacere del peculiare paesaggio maremmano, o dell’orografia tufacea, che condiziona visibilmente anche l’urbanistica dei suggestivi piccoli centri di entrambe le regioni, insomma, hanno in comune una serie di elementi che varrebbero a costituire un spazio collettivo identitario sicuramente in termini più significativi di quanto possano farlo ciocie o cannate. Nondimeno, vuoi per i tanti secoli di storia separata, che naturalmente, come ho già detto, hanno introdotto una manifesta e prolungata discontinuità rispetto al tempo degli Etruschi, vuoi per le diversità linguistiche e anche (e soprattutto) di mentalità, manco per niente un abitante del Grossetano o del Senese (meno che mai!) riterrà che Grosseto o Siena e Viterbo appaiano come un’unica realtà sufficientemente omogenea, o, in altri termini, riterrà che gli elementi che ho menzionato costituiscano, per usare la terminologia del Santulli, fattori qualificanti e probanti nella connotazione e individuazione di un certo territorio. Figuriamoci quindi se possono connotarlo ciocie, cannate, mantesini, fazzoletti in capo! Se non si sentono, in definitiva, parte della stessa realtà territoriale, un abitante di Capalbio e uno di Tarquinia, non vedo perché invece dovrebbero sentirsi affini uno di Anagni e uno di Cassino, posto che i primi hanno in comune tra di loro forse elementi più significativi dei secondi. Quel che emerge con chiarezza è che entrambe le situazioni prese in considerazione (Ciociaria e Terra di Lavoro, così come Toscana meridionale e Lazio settentrionale) sono caratterizzate da analogie e differenze, solo che le differenze e le particolarità vengono considerate, e lo sono, più significative delle analogie e del patrimonio comune.

Insomma, per concludere, l’inclusione dell’Alta Terra di Lavoro nella Ciociaria è del tutto abusiva per precise, manifeste e insormontabili ragioni storiche e linguistiche, al netto magari, va riconosciuto, degli effetti dell’innegabile processo di “ciociarizzazione” o “lazializzazione” subìto da alcuni (pochi) centri, Sora, Arpino, Arce, Sperlonga, posti sulla linea del vecchio confine di stato. Il processo di “lazializzazione”, fatalmente, è stato innescato dall’istituzione della provincia di Frosinone (e di quella di Latina, in questo caso però, fortunatamente, con effetti meno apprezzabili), ma da alcuni anni esso è efficacemente arginato da un processo di segno contrario, che, volto alla riscoperta delle radici, ha portato molte persone a maturare finalmente una diversa consapevolezza della propria identità storico-culturale.

Antonio Longo

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